Sensazione di vuoto e perdita di motivazione: quanto durerà il “languishing”?

GdL Psicologia dell’Emergenza - Sottogruppo Covid-19 e Recovery - Luigi Chiri, Maira Francesca Valli e Claudio Verri

I venti di guerra soffiano sulle nostre teste. Si sono presi uno spicchio di territorio europeo e hanno invaso i nostri stati d’animo già debilitati dalla lotta al Coronavirus. Mentre un timido raggio di speranza stava facendo capolino tra i pensieri del mattino, improvvisamente ci ritroviamo a masticare una buona dose di angoscia che si aggiunge alla collezione di emozioni eroicamente affrontate dal febbraio del 2020 ad oggi.

Già, perché due anni di pandemia sono già passati, tra mascherine, stati di emergenza, vaccini, pass, realtà virtuale, zone rosse, gel igienizzanti, aperture, chiusure, classi piene, classi vuote, quarantene, isolamenti, auto-osservazione, recovery plan, comitati scientifici, bollettini, virologia a reti unificate, complotti, silenzi, lutti.
Le oscillazioni esperienziali di questi ultimi due anni hanno inoculato dosi di incertezza mai viste, insieme a sbigottimento, interrogativi, attese… sospensione dei destini personali. Abbiamo lottato, sperato, negato e ingurgitato livelli di incertezza inenarrabili per accorgerci, ora, che nulla (o poco) è stato completamente assimilato e continua a sobbollire dentro una sorta di enigmatico torpore esistenziale. Ed è in questo stato che spesso ci siamo ritrovati a non capire, realmente, come e cosa rispondere ad un semplice “Come stai?”.

Un risvolto al dilemma è sicuramente arrivato nella primavera scorsa quando sul New York Times, lo psicologo Grant ha proposto il termine languishing per identificare “l’emozione dell’anno 2021” senza sapere purtroppo che l’etichetta avrebbe riverberato con progressiva convinzione fino a oggi. In realtà, il termine è stato coniato per la prima volta dal sociologo Keyes che nei primi anni  Duemila aveva definito il languishing come una sorta di stato di stagnazione, una sensazione di vuoto, una condizione di perdita di motivazione e di assenza di benessere.

Al netto di dati che attestano la presenza strutturale di languishing in una fetta di popolazione pari a circa il 10%, è indubbio per molti ricercatori che lo stato di assedio pandemico abbia ampliato e cronicizzato la porzione di cittadini alle prese con questo stato emotivo. Sicuramente la perdita dei marker temporali legati alla quotidianità, in un primo momento, ha diffuso insidiosamente i fattori di innesco del fenomeno salvo poi ipotizzare un incancrenirsi dello stesso a causa di un reale deficit nella prospettiva esistenziale e sulle prospettive future.
In questa chiave, proprio oggi, nel mezzo del conflitto, ha ancora più significato parlare di languishing. Assume, infatti, ancora più rilevanza il nostro rapporto con il futuro e con la sensazione di non riuscire a mettere in campo le nostre potenzialità, le necessità di realizzarci all’interno dei rapporti e delle relazioni con gli altri, con la comunità.

Nel campo della ricerca si è registrata una crescita esponenziale degli studi legati a questo fenomeno ed è lecito pensare che ancora più attenzione sarà dedicata al languishing non solo in relazione agli stravolgimenti pandemici. Forse ci si chiederà della necessità di individuare un termine nuovo, che suona come l’ennesima etichetta: la psicologia ha focalizzato da tempo che nominare le emozioni aiuta a fronteggiarle, e l’assenza di benessere data dal languishing crea dolore in chi lo vive.
Non avere una diagnosi clinica non significa non soffrire. Pur in assenza di patologie psicologiche conclamate, trascurare le condizioni contraddistinte dall’assenza di benessere (emotivo, psicologico, sociale) significa creare le basi per lo sviluppo di disturbi. I costi umani sarebbero incalcolabili, ed è in quest’ottica che serve favorire l’intervento di professionisti capaci di riconoscere il fenomeno e di incentivare una serie di attenzioni finalizzate al recupero delle determinanti di salute.

Il termometro che rileva la salute mentale diventa un indicatore da incarnare in qualsiasi piano serio di recovery e di ricostruzione post-pandemica. Non basta più la dolorosa e necessaria conta dei danni che a più livelli sottolinea la marcia delle sofferenze in formato patologico. Serve approntare politiche serie, mirate e a lunga gittata incentrate sul tema del benessere psicoemotivo. Non farlo significherebbe colludere con i rischi dimostrati di favorire una galoppata del languishing in forme serie di disturbo oppure, nel migliore dei casi, consolidare la stagnazione emotiva con il rischio che possa diventare una sorta di substrato resistente al cambiamento e allo slancio esistenziale di cui questa fase ha visceralmente bisogno. In questo lungo tempo di pandemia, ci siamo accorti che c’è un’alternativa al futuro: il non futuro. In questo il languishing sembra avere una sua funzione adattiva ovvero quella di metterci al riparo dalla delusione delle aspettative in un mondo altamente caratterizzato da incertezza.

Il futuro si è smarrito tra le pieghe di uno sguardo imbavagliato dalla linea dell’orizzonte ostinatamente imposta dalle mascherine sul nostro volto. Lo vediamo, oggi, il nostro futuro, pericolosamente allontanarsi tra gli echi di una crisi bellica. Siamo stati resilienti, stoicamente resistenti, ripiegati su quotidianità traumatizzate ma comunque combattive. La pulsione di vita ora richiede una ripartenza, esige il tempo delle opportunità, ha bisogno di cura e guida, attenzioni e professionalità.